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Il corpo narratore

di Ivano Gamelli

 

Come si usa dire – rischiando spesso di rimuovere la drammaticità che tale espressione comporta - viviamo in una società globalizzata e complessa, una società dominata dalla comunicazione ed è quindi inevitabile che su tale argomento siano oggi disponibili le più diverse teorie, strategie, tecniche di pronto uso, prescrizioni e buoni consigli. Una trattazione delle vicissitudini storiche e culturali che hanno portato alla moltiplicazione degli sguardi e degli approcci relativamente al tema della comunicazione e dell’ascolto costituirebbe certo argomento utile e interessante.
Siamo passati attraverso cambiamenti rilevanti nei modi di guardare a come noi, esseri umani, comunichiamo. Per molto tempo, ad esempio, si è teso a considerare la comunicazione sulla base delle informazioni che ci scambiamo sui contenuti, intesi quale oggetto specifico dei nostri discorsi. L’enfasi posta sulla trasmissione del messaggio ha dato il là ad un vero e proprio orientamento di studi e ricerche scientifiche. Chiunque, per ragioni di studio o professionali, si sia imbattuto in una simile opzione culturale sa bene a cosa mi riferisca: immancabile ed emblematico è il grafico nel quale, attraverso una linea e una freccia, la questione della comunicazione si risolve in buona sostanza nel capire come l’emittente A raggiunga con il proprio messaggio il ricevente B.
Così linearmente posto, il problema ha però giocoforza evidenziato come lo stesso B condivida l’identica necessità, apportando ben presto al grafico originale un’ulteriore freccia di segno opposto. Di lì a breve, è parimenti parso limitante considerare la relazione in termini di semplice orizzontalità: le linee si sono dunque progressivamente arrotondate, fino a comprendere A e B in una rappresentazione ora circolare, in seguito inscritta all’interno di una serie di retroazioni (feed-back) complicate, per arrivare infine a scoprire che nella loro relazione era pur compreso – come sempre - un terzo punto di vista, C, che sorprendentemente garantiva il moltiplicarsi di linee e frecce e conseguentemente delle loro possibili combinazioni… I sofisticati e accessibili programmi di grafica dei nostri computer rendono ormai possibile, dismessi i vecchi lucidi, attraverso “Power Point”, rappresentazioni delle nostre dinamiche comunicative sempre più articolate, belle e colorate.
All’interno di questo paradigma (Cacciamani S., Psicologia per l’insegnamento, Carocci, Roma 2002), ovvero di una visione del mondo, nello specifico della comunicazione, le parole d’ordine (nelle università, nelle aule della formazione soprattutto aziendale, nelle sale dei convegni, nei contesti segnati dal ricorso ai più diversi media) sono comprensibilmente diventate quelle di “abilità”, “efficacia”, “competenza”, in altri termini (possibilmente inglesi) tutto quanto concretamente occorre affinché ciò che abbiamo da dire (e da ascoltare?) possa fluire in maniera da risultare pertinente e, soprattutto, convincente, facendo in tal guisa di noi validi comunicatori e ascoltatori.
Naturalmente, la prospettiva appena ricordata non è l’unica di cui oggi possiamo disporre. Secondo altri studiosi della comunicazione, che si collocano lungo una linea ideale che congiunge Simmel (Simmel G., Il conflitto nella cultura moderna e altri saggi, Bulzoni, Roma 1976) a Bateson (Bateson G., Verso un’ecologia della mente, Adelphi, Milano 1976), al di là delle informazioni che ci scambiamo sui contenuti c’è infatti una domanda fondamentale che sempre rivolgiamo al nostro interlocutore, una domanda implicita che suona silenziosamente, ma non per questo in modo meno incisivo, più o meno così: “Come mi vedi?”, ovvero “Mi accetti, mi giudichi positivamente, confermi l’immagine di me stesso che in questa situazione vorrei trasmettere?”. Senza il bisogno di ricevere una risposta a questa domanda, limitandosi a considerare le sole esigenze trasmissive legate al contenuto, la comunicazione umana non si sarebbe sviluppata, secondo Paul Watzlawick, “oltre gli scambi necessari alla sopravvivenza” (Contini M.G., a cura di, Il gruppo educativo, Carocci, Roma 2000, p. 17).
Con la scuola della “pragmatica della comunicazione” (Watzlawick P. et alii, Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma 1971), di cui Watzlawick è appunto stato uno degli esponenti di maggior spicco, alla mera attenzione per gli aspetti “di contenuto” se ne intreccia un’eguale per gli aspetti definiti “di relazione” e, grazie a ciò, la comunicazione da competenza relazionale del soggetto diventa competenza relazionale interattiva del sistema. Da ciò discende, ad esempio, che acquisire consapevolezza di sé, della propria comunicazione, oltre l’idea di abilità e di efficacia, include innanzitutto l’imparare a discernere il piano dell'autopercezione (come mi vedo io) da quello di come mi vedono gli altri (con le loro proiezioni e i loro fantasmi). Al pari di qualsivoglia comportamento (da cui l’assioma relativo all’impossibilità di non comunicare), anche la comunicazione non è più tematizzata come qualcosa che semplicemente si produce, bensì come un contesto a cui soprattutto si partecipa (dove il posto in cui siamo, l’ordine in cui parliamo, il tempo che occupiamo parlano per noi, prima e spesso più di quanto abbiamo-vogliamo dire) e dei cui esiti si è quindi solo parzialmente “padroni”. Si comprende come, in una simile visione, comunicazione e relazione finiscano per risultare essenzialmente sinonimi.
Il passaggio da una prospettiva lineare a una complessa della relazione educativa (Formenti L., "L’ascolto che cura", in Gamelli I., a cura di, Il prisma autobiografico, Unicopli, Milano 2003), dunque dell’ascolto e della comunicazione quali aspetti che la sostanziano, ha generato una nuova attenzione per dimensioni prima trascurate. Fra questi, in particolar modo, ve ne è uno che riguarda la dimensione cosiddetta “analogica” che, a differenza del codice digitale proprio del linguaggio verbale, mette al centro gli aspetti non verbali inclusi nei nostri scambi comunicativi. Ma cosa significa disporsi all’ascolto con il proprio corpo.


Quale corpo?

Nel 1899, Philippe Tissié, un noto medico francese, si trova a trattare un caso d'instabilità mentale di un giovane di diciassette anni, con idee ossessive, collerico e manifestamente aggressivo. Il ragazzo rifiuta la compagnia dei suoi compagni di scuola, entra spesso in forte conflitto con loro e perciò si trova a trascorrere molto tempo in totale solitudine. In compenso, cammina molto: nel giardino dei suoi genitori, nella sua camera, nei corridoi, nella strada. Cammina e cammina, soprattutto dopo il riposo.
Tissié decide di sottoporlo a un trattamento basato sull’esecuzione di movimenti elementari di coordinazione, di flessione, d’equilibrio, di salto al trampolino, di corsa a piedi, di passeggiate in bicicletta, perfino di boxe. A intervalli regolari, inoltre, lo costringe a delle docce fredde. I progressi del giovane sono, a dire del medico, rapidi: la paura lo abbandona, le manifestazioni violente si riducono, la possessione deambulatoria diviene rara, poiché – sentenzia Tissié – la ginnastica medica gli ha permesso di impiegare la forza che prima utilizzava nel conflitto. Qualche anno più tardi, il medico francese integrerà la sua nuova teoria, completandola con l’azione psico-dinamica della ginnastica respiratoria che – sempre secondo Tissié – stimola i centri psico-motori e la suggestione, sviluppa il controllo di sé e sollecita a livello cerebrale l’incontro tra il pensiero e il movimento. Parlando per la prima volta dell'esistenza a livello cerebrale di un legame tra i centri psico-motori e il movimento, agli inizi del '900 Tissié costruisce un nuovo spazio di oggetti e di concetti, la ginnastica medica, una teoria e una pratica che colloca tra la fisiologia e la psicologia (Fauché S., Du corps au psychisme, PUF, Paris 1993).
Da quale assunto è partito Tissié? Da un modello che oggi definiremmo "funzionale", “strumentale”, da un’immagine dell’uomo come riserva di forza e di energia. Secondo questo modello tutti i processi biologici si sviluppano, in estrema sintesi, attraverso un'alternanza binaria di "carica-scarica": quando la scarica è impedita, si generano conflitti che impediscono all'individuo di funzionare con il suo pieno potenziale energetico, una condizione che, diventata stato cronico, determina l’insorgenza di blocchi sia a livello fisico (muscolare) sia psichico.
La visione funzionale del rapporto mente-corpo s’impone per buona parte del secolo scorso. Dall'ipnosi di Charcot e di Freud, passando attraverso le teorie catartiche di Willheim Reich, pioniere della bioenergetica, fino alle recenti mode del fitness, si diffonde per questa via un'idea del corpo come luogo dell'energia repressa, luogo di accumulo di tensioni, di conflitti – di volta in volta e in base agli assunti delle diverse scuole – da contenere e controllare oppure da scaricare e liberare. Questo modello funzionale si basa sostanzialmente sull'idea di un corpo avvertito come “pericoloso”, minaccioso, poiché sostanzialmente "opaco", in quanto non svela all’esterno le reali dinamiche delle sue ragioni e del suo funzionamento. Un corpo il cui senso ultimo da sempre incanta, sorprende e insieme sfugge al controllo. Da lì, anche, lo sforzo (illusorio) di renderlo "trasparente": attraverso, ad esempio, l'enfatizzazione della prestazione, fino ad arrivare alla produzione di protesi per liberarsi dai limiti biologici, ai recenti e inquietanti scenari aperti dalla manipolazione chirurgica e genetica... (Gli uomini, intesi come genere maschile, non abitano il corpo. Probabilmente poiché subalterni in relazione ai processi generativi della specie – da questo punto di vista, molti studi di genere parlano di "miseria del corpo maschile" – gli uomini hanno sempre manifestato un'urgenza di emancipazione dal corpo, dal biologico, dai suoi segnali, dall'ascolto… Un esempio emblematico è costituito dalle vicissitudini occorse, nei tempi moderni, alle pratiche della nascita, evento corporeo e misterioso per eccellenza. La loro essenziale dimensione naturale, propria del genere femminile, è stata progressivamente ospedalizzata e messa sotto il controllo del sapere medico, non a caso ancora oggi in questo settore prevalentemente maschile).
Che il corpo possa essere così percepito è ben testimoniato dagli importanti studi di Michel Foucault (Foucault M., Sorvegliare e punire, Torino, Einaudi 1975) sull'organizzazione della disciplina nelle istituzioni totali: il carcere, l’ospedale, la caserma… la scuola. Ciò che veramente conta nell'esperienza dell'educare – sostiene Foucault – non è infatti la persona dell'educatore-insegnante-istruttore che sia, non è l'azione educativa, non è il metodo o la tecnica, non è l'apprendimento e neppure l'apprendimento dell'apprendimento; non è il contenuto, non è la disciplina, non è la comunicazione, non è la conoscenza del mondo psichico dell'educando, non è la dinamica sociale e familiare, non è la cultura di provenienza. Ciò che veramente educa è il reticolo che connette fra loro tutti questi elementi, un "dispositivo" nel quale rientrano soprattutto la cura degli spazi, dei tempi, dei corpi (Mottana P., “La pedagogia come clinica della formazione”, Pedagogika, n. 21-2001). Foucault sottolinea, ad esempio, come la tecnologia dell'organizzazione di uno spazio seriale (la tradizionale fila di banchi orientati verso la cattedra) costituisca la vera grande innovazione delle tecniche comunicative dell'insegnamento, avendo determinato un'economia dei tempi e degli spazi funzionale alla creazione di una disciplina tesa a formare corpi docili, addomesticati e, in quanto tali, predisposti alla assimilazione delle reti precostituite del sapere disciplinare, al cui vertice egli pone quello medico. Tutti noi siamo stati educati all’interno di questo modello: nell'illusione educativa di poter educare esclusivamente attraverso la parola e le buone intenzioni senza dover fare i conti con altre dimensioni del sentire e del conoscere. Siamo tutti cresciuti in quel pregiudizio, già segnalato da Maria Montessori quando invitava, nella pratica educativa, a rompere con l'associazione di ciò che è “bene” con l'immobilità e la parola e di ciò che è male con la corporeità e il movimento.
Negli anni '60-'70 si profila appunto, anche come reazione al modello funzionale, un altro approccio al corpo e al movimento. Motore di questo cambiamento è senza dubbio lo scenario sociale e culturale di rivolta giovanile in cui si inscrive. Il conflitto trasforma la visione del corpo da luogo da contenere e da emendare in quella di luogo da ascoltare, da lasciar vivere. Una visione complessa che potremmo definire di natura relazionale, olistica, globale e dinamica.
Non più considerato un oggetto, bensì un campo, il corpo diventa strumento per intrattenere rapporti con il mondo, sistema di opposizioni intorno a cui si giocano nuovi conflitti e nuove domande di trasformazione personale e collettiva. “Ho coscienza del mondo attraverso il corpo” è lo slogan di quegli anni preso a prestito da una famosa affermazione del grande filosofo della percezione Merleau-Ponty. Il corpo non più visto dunque come “il mio corpo/il tuo corpo”, bensì come territorio di confine, di contatto emotivo; il corpo come sfondo e contesto per un'esperienza relazionale e comunicativa da intendersi come evento intersoggettivo. L'idea di corpo come campo si accompagna al recupero della nozione di “dialogo primario”, che sottende il rapporto che intratteniamo con le emozioni quale conseguenza del modo in cui i nostri genitori si sono, sin dai primi giorni, relazionati con noi a livello corporeo, della comunicazione non verbale.
Il bambino impara a riconoscere ed esprimere le emozioni attraverso l’osservazione e l’imitazione. Ad esempio, se il bambino, per qualche ragione, mostra perplessità e inarca le sopracciglia, la madre inarcherà le sopracciglia “dicendogli” qualcosa che è la sua interpretazione di ciò che lui pensa stia comunicandogli. E’ la prima esperienza che fa il bambino di essere compreso da un altro: è l’inizio della comunicazione emotiva. Il bambino che, contrariamente a quello che si pensa, fin dai primi mesi di vita dispone della capacità di crearsi delle rappresentazioni del mondo di ciò che gli accade intorno, reagisce con dei movimenti, delle contrazioni muscolari all’uso particolare delle vocali e consonanti di sua mamma che gli parla. Le emozioni hanno dunque delle radici corporee, legate al dialogo tonico. Un noto ricercatore, Daniel Stern (Stern D., Il mondo interpersonale del bambino, Bollati Boringhieri, Torino 1987), ha postulato l’esistenza di un alfabeto emotivo primario, da lui definito degli “affetti vitali”. Lo sviluppo di questi affetti nel bambino non dipenderebbe dal fatto di essere stato coccolato, cullato, accudito eccetera. Le differenze dipenderebbero da come la mamma lo ha tenuto in braccio, da come gli ha parlato… da come queste qualità di percepire le relazioni sono state introiettate da noi a partire dalla relazione primaria con qualcuno/a che nel frattempo si muoveva nello spazio, condizione che accresce ulteriormente gli stimoli tattili, uditivi, visivi, cinestesici. Una piena sintonizzazione corporea produce degli importanti risultati a livello dei processi di apprendimento. Insegna, fondamentalmente, cosa si può fare con uno schema motorio: indica opzioni, stili, possibilità. E’ attraverso la sintonizzazione corporea che noi tutti abbiamo imparato che le altre persone possiedono differenti stati interiori e modi differenti di comunicarli, che esiste un vissuto interno e uno esterno, che la comunicazione è resa possibile dal delicato lavoro sulla distanza da porre fra noi e gli altri senza che si smarrisca la relazione. In ogni attività, in tutte le proiezioni di noi nel mondo ritroviamo la nostra immagine del corpo. I modi di esprimerci a ogni livello, la costruzione delle nostre frasi, la nostra gestualità, la scelta delle persone attorno a noi, la disposizione del nostro appartamento, tutto questo e altro racconta di quell’immagine e contribuisce a compensare costantemente, a livello simbolico, la perdita del piacere originario.
Per le scuole di pensiero di matrice comportamentista, da quest’immagine discende la nozione di “schema corporeo”, vale a dire la maturazione delle capacità “prassiche” (l’integrazione delle diverse parti del corpo al fine di realizzare coordinazioni funzionali sempre più efficaci), che si consolida, parallelamente allo sviluppo neurofisiologico, intorno al 12°-13° anno di vita. Ma per altri teorici – come vedremo nel prossimo paragrafo - tale diretta associazione risulta alquanto riduttiva, poiché non è semplicemente stimolando ed educando il movimento che si facilita o si ristabilisce la comunicazione, i cui fondamenti sono innanzitutto la relazione, il piacere, la presenza. (Quanto contenuto in questo paragrafo riprende, in estrema sintesi, la materia di un mio saggio di recentissima pubblicazione: Gamelli I., "Pedagogia ed educazione motoria", in AA.VV., Pedagogia ed educazione motoria, Guerini e Associati, Milano 2004).

Prevenire il corpo-docente

Disponiamo oggi dunque di due prospettive dalle quali considerare l’ascolto e la comunicazione corporea. La prima consiste fondamentalmente nel ritenere il linguaggio del corpo come denotativo delle cose e delle persone. I tradizionali studi della cosiddetta “Comunicazione non verbale” ne costituiscono il vertice più significativo (Argyle M., Il corpo e il suo linguaggio. Studio sulla comunicazione non verbale, Zanichelli, Bologna 1975). Secondo la CNL, infatti, ogni segnale corporeo (gesti, atti, posture) rappresenta, nella logica di causa-effetto, un indicatore esterno di uno stato interno dell’individuo. Così, se di fronte a un insegnante tenderò a chiudermi nelle spalle, a guardare verso il basso, ad abbassare il tono della voce ecc., tutto ciò starà inequivocabilmente a indicare il “mio” disagio verso quella relazione: l’ampia pubblicistica a disposizione di questa opzione culturale si sforza di completare il suo “catalogo” con una molteplicità sempre più esaustiva di segni-segnali e relativi significati che, al di là di ogni giudizio di merito, finiscono con l’assegnare alla comunicazione corporea, in nome dell’urgenza classificatoria, un valore aggiunto ma subalterno, per non dire opzionale, rispetto a quello della parola.
Ben diversa è la seconda prospettiva che invece s’interroga sulle “funzioni relazionali” del dialogo corporeo.

Apro la porta del frigorifero. Il gatto arriva e si strofina contro la mia gamba ed emette una variante della proposizione “miao”. Asserire che comunica “Dammi del latte” può essere utile, ma non è una traduzione corretta dal suo linguaggio al nostro. Più fedelmente dovremmo tradurre “Sii mamma”, “Fammi da mamma” (…). Questa forma di comunicazione non è riducibile né a uno stimolo né a una risposta. Non è neppure riducibile a “una descrizione” e nemmeno a “un ordine”, è “un’idea concretizzata”: strofinandosi sulla mia gamba e facendo “miao” il gatto EVOCA UN CONTESTO RELAZIONALE del quale lui è già pienamente parte (…) ATTIVA UNA DINAMICA CONFIGURAZIONALE (…) in quanto coinvolge l’interlocutore compromettendosi fisicamente ed emozionalmente nell’evocazione di Gestalt che corrispondono a specifiche e contingenti configurazioni della socialità e del potere (Sclavi M., Arte di ascoltare e mondi possibili. Come si esce dalle cornici di cui siamo parte, Bruno Mondadori, Milano 2003, pp. 225-226).

L’esempio del gatto, che nella citazione Marianella Sclavi prende a prestito da Gregory Bateson, illustra bene il passaggio da un’attenzione corporea tutta centrata sulla psicologia dell’individuo, qual è il caso della CNL, ad un’attenzione impegnata al contrario a inscriverlo in una relazione. Il significato dell’interazione è da rintracciare nello spazio corporeo aperto dall’incontro. Ascoltare e ascoltarsi attraverso il corpo significa divenire consapevoli che la relazione che s’instaura a tale livello “è sempre autoriflessiva, circolare, dialogica; rimanda, per essere descritta, alle reazioni, alle reazioni alle reazioni. Non ci informa su cosa guardiamo ma su come siamo dinamicamente impegnati a costruire i contesti di cui siamo parte” (Ibid., pp. 231-232).
Un luogo per eccellenza dove più sensibile si è palesata la ricerca intorno a una simile consapevolezza è certamente quello del teatro. In particolar modo di quel teatro che nel secolo scorso più si è interrogato circa il senso da attribuire alla relazione attore/pubblico. Messa in crisi la concezione tradizionale della commedia borghese, di un teatro “liturgico” nel quale tutto si risolveva nello “spostare il corpo” sul palcoscenico per mandare a memoria un testo, alcuni grandi riformatori dell’arte attorale si sono chiesti come fare per mettere primariamente in scena l’attenzione e l’ascolto del loro pubblico. Come l’attore diventa protagonista di una storia che non gli appartiene? “Qual è l’elemento senza il quale il teatro non può esistere?”. Queste e altre domande hanno dato il via ad una stagione fertile di ricerca, incarnata soprattutto in alcune figure. Valga qui per tutte quella di Jerzy Grotowski, acclamato regista polacco, allievo di Stanislavskij, che, nella seconda metà del ‘900, dopo aver messo trionfalmente in scena solo pochi spettacoli, decidendo di “ritirarsi” dal gioco delle rappresentazioni, inaugurò un nuovo modo di pensare e fare teatro, interessante soprattutto per le straordinarie analogie che esso ha saputo nel tempo manifestare – come richiamato dalla illuminante citazione che segue - rispetto ai contesti propri dell’educazione.

Un progetto formativo viene spesso concepito come un testo normativo. Se invece, come formatore, educatore, insegnante, penso il programma non come un testo ma come un copione teatrale, il programma non si situa fuori dallo spazio dell’educare, lontano da me e dai miei allievi, ma si pone come qualcosa che “noi” dobbiamo “recitare” (Antonacci F., Cappa F., a cura di, Riccardo Massa. (Lezioni su) la peste, il teatro, l’educazione, Franco Angeli, Milano 2001, p. 82).

Per Grotowski può eliminare la scenografia, si possono eliminare gli effetti luce, l’intervento musicale, il trucco, il costume, si può eliminare anche il testo, ma finché resta la presenza fisica ed espressiva dell’attore a confronto con il pubblico, il teatro (l’educazione) esiste: un’espressività, una comunicazione e un ascolto possono essere instaurate. A questa irriducibilità del corpo all’atto teatrale inteso come potere d’ascolto (definita da Grotowski, “organicità”) il regista polacco è arrivato attraverso un particolare percorso, da lui definito “parateatrale”, basato sullo studio dei comportamenti corporei che determinano le condizioni per “un uomo e una donna attenti”, il quale merita di essere quantomeno accennato. Nei suoi numerosi viaggi e stage in giro per il mondo, radunando attorno a sé individui di differenti tradizioni e culture, aldiquà delle ragioni religiose ed esoteriche, egli si era reso conto di una semplice e profonda verità.

In diverse pratiche legate a momenti di culto, di meditazione o di semplice attenzione, in culture distanti tra loro, i corpi di coloro che cercano la concentrazione si trovano in una posizione analoga: immobile e dinamica, in equilibrio instabile, all’erta, al limite dello squilibrio. Quando le pratiche rituali, a cui sono legate queste posizioni del corpo si cristallizzano o istituzionalizzano, d’un tratto i corpi si rilasciano. Ci si siede (Lorenzoni F., L’ospite bambino, Era Nuova, Perugia 2002, p. 102).

Da sempre, tutte le forme di meditazione e preghiera presuppongono una disciplina posturale. In alcuni casi – come nell’essenzialità buddista della corrente Zen – la comunicazione e l’ascolto “di ciò che è più importante di noi” coincide strettamente con l’attitudine corporea, è la postura.
Quando però la liturgia (della parola) prevale sull’energia della fede, allora… ci si siede nelle chiese come si sprofonda nei nostri sempre più soffici divani. Il corpo-docente si nasconde al riparo della cattedra…

Una pedagogia dei piccoli mali

Quali vantaggi può trarre un educatore resosi sensibile agli aspetti corporei della relazione formativa?
Sarà certamente un osservatore più attento di come i corpi si dispongono e si muovono nello spazio, delle loro “danze” (dei ritmi), ovvero delle varie possibili configurazioni relazionali che i medesimi (incluso il proprio, ovviamente) dispiegano. Soprattutto, non isolerà più i singoli comportamenti, con l’inevitabile operazione giudicante che ne scaturisce. Di conseguenza, saprà utilizzare tali consapevolezze come risorse formative (Ad esempio, chiedendosi: Cosa faccio (quali azioni) prima di entrare in aula? E quando mi appresto a iniziare una lezione? Occupo sempre lo stesso posto? Sono consapevole di essere fermo o in movimento quando lo sono? Con quali atti “carico” i silenzi? Il mio tono della voce “punteggia” i passaggi delle mie comunicazioni? Come guardo, cosa muovo, cosa penso mentre ascolto?…).
La pedagogia del corpo si offre perciò come una pedagogia dell'ascolto e della presenza, un'attitudine che legittima un diverso atteggiamento e posizionamento in relazione all'altro, offrendo opportunità per cambiare le configurazioni abitudinarie, per agire lo “piazzamento apprenditivo”. Le parole che seguono, di un operatore nel campo della terapia a mediazione corporea, ci aiutano a chiarire bene cosa significhi stare nella relazione filtrandola attraverso il proprio corpo:

Durante una seduta con una mia piccola paziente, mi coglie una grande sonnolenza. Il mio corpo diventa pesante, i ritmi interni sembrano rallentare, il respiro si limita al torace. Con un altro bambino, in un'altra occasione, invece, il respiro è accelerato, mi sorprendo agitato, mi accorgo di muovere molto il mio corpo. Con un altro bambino ancora mi sento girare la testa, trattengo il respiro, non riesco a percepirmi con la stessa solidità, le cose sembrano perdere i loro contorni precisi, mi sento fluttuare (Cartacci F., Bambini che chiedono aiuto, Unicopli, Milano 2002).

Sospendendo il giudizio, l'abitudine a voler immediatamente intervenire, disponendoci ad ascoltare ciò che passa attraverso il proprio corpo, si apre l'interazione educativa ad un flusso continuo di segnali:
- Come sto respirando?
- Come batte il mio cuore?
- Come varia il mio tono muscolare?
- E la mia voce?
- Quale qualità esprime il mio gesto, il mio sguardo, la mia mimica?
- …
Sapere cosa provo attraverso il mio corpo di fronte all’altro mi permette non solo di capire cosa l'altro prova, soprattutto di generare naturalmente un’effettiva sintonizzazione, di evidenziare e nominare emozioni e sentimenti che in-formano la relazione con quel particolare bambino, adolescente o adulto che sia.

Il rapporto con il linguaggio del corpo, prima ancora di divenire pratica psicopedagogica, è una "pedagogia dell'esistenza". Una pratica della nostra quotidianità che possiamo affinare oltre e prima che essa diventi pratica psicopedagogica, come ci ricorda Alberto Melucci nella riflessione che segue, cui affido la conclusione di questo mio contributo:

Una delle esperienze più comuni in cui il conflitto del corpo si manifesta nella nostra vita quotidiana sono i piccoli mali, tutti quei fastidi e disagi fisici per i quali normalmente non riteniamo necessario un intervento medico. Tutti noi, in misura variabile, siamo afflitti o visitati da questi piccoli mali (…) Che cosa significano per noi questi stati fisici e queste sensazioni del corpo che ci visitano con tanta continuità? (…) Ciò che connota i piccoli mali è il fatto che essi sono nel corpo. Abbiamo mal di testa, mal di stomaco, mal di schiena, e così via (…) Quali sono le risposte correnti che più o meno tutti utilizziamo verso i piccoli mali? La più generale è la negazione. Ciò significa che anche se fisicamente continuiamo a registrare tutti i disagi di cui sappiamo, non facciamo posto alla possibilità di nominare, di dare un senso a questa parte della nostra esperienza (…) Col tempo non diciamo neppure più "Ho mal di testa", ma ci rifugiamo nel più generico "Non sto bene". L'altra risposta fondamentale ai piccoli mali è il ricorso ai farmaci. Attraverso i farmaci si ottiene il risultato fisiologico di ridurre o annullare il fastidio, allontanando fisicamente l'ospite. Ma si raggiunge anche l'effetto, più importante dal punto di vista psicologico, di cancellarlo dalla lista. Dove prima c'era una presenza creiamo, mentalmente e affettivamente, uno spazio vuoto. Il silenzio del corpo. A noi allora decidere se cancellare questa relazione con un'elaborazione mentale o con i farmaci, oppure se assumere la responsabilità di dare senso alla nostra finitezza. Poiché i piccoli mali non ci ricordano solo che siamo finiti e che possiamo morire, ma anche che stiamo vivendo, che traduciamo nel nostro corpo una condizione esistenziale, ambientale, relazionale (…) Diventare vittime o interlocutori di questi processi dipende anche dalla nostra vicinanza al corpo che siamo. Di fronte al corpo asettico della medicina potremo far esistere un corpo vivo solo se ne avremo imparato la parola (Melucci A., Il gioco dell’io, Feltrinelli, Milano 1991, pp. 78-86).

 

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